Le microplastiche sono ormai ovunque: nell’aria, nell’acqua e persino negli alimenti. Secondo un’analisi condotta dalla Commissione Europea, un adulto arriva ad assumere fino a 5 grammi di plastica a settimana, una quantità simile a una carta di credito. Le particelle, impercettibili a occhio nudo, finiscono nel sangue, negli organi e in alcuni casi persino nella placenta. A diffonderle, spesso, sono oggetti comuni che si trovano ogni giorno in cucina. Dalle bottiglie d’acqua in plastica ai contenitori per alimenti, fino a taglieri, bustine di tè e persino biberon. Oggetti all’apparenza innocui che rilasciano frammenti durante l’uso normale, contribuendo così a un’esposizione quotidiana e costante.
Cosa rilascia più microplastiche in cucina
Uno studio pubblicato su npj Science of Food ha analizzato oltre 100 articoli a contatto con gli alimenti. I risultati hanno confermato che alcuni strumenti da cucina rilasciano microplastiche durante il normale utilizzo. Aprire una bottiglia di plastica, ad esempio, può provocare abrasioni sul tappo, rilasciando frammenti minuscoli. Lo stesso avviene tagliando su un tagliere in plastica o immergendo una bustina di tè in acqua calda. Non si tratta di un’eccezione: in molti casi, il rilascio di plastica è sistematico. E non risparmia neppure gli oggetti per neonati, come i biberon, che secondo i ricercatori liberano particelle già dai primi giorni di vita.

La sorpresa arriva anche dal vetro. Uno studio dell’Agenzia francese per la sicurezza alimentare ha rilevato che le bottiglie in vetro possono contenere più microplastiche rispetto a quelle in plastica. Il motivo? I tappi, spesso rivestiti internamente con strati di plastica che, durante la lavorazione e lo stoccaggio, si graffiano e rilasciano particelle tra 0,1 micrometri e 5 millimetri.
Le conseguenze per l’organismo e come difendersi
Una volta ingerite o inalate, le microplastiche non vengono espulse facilmente. Diversi studi hanno trovato tracce nei reni, nel midollo osseo, nel latte materno, nel cervello e persino nelle feci dei neonati. Secondo i ricercatori, queste particelle possono modificare il microbioma intestinale, causando squilibri che si ripercuotono su digestione, sistema immunitario e metabolismo. Altri effetti osservati sono infiammazioni croniche, stress ossidativo, neurotossicità, disturbi riproduttivi e ormonali. Alcuni studi suggeriscono anche la possibilità che le microplastiche diventino vettori per metalli pesanti, come il mercurio, o per inquinanti organici come diossine e pesticidi.
Secondo Rachel Adams, docente di Scienze biomediche alla Cardiff Metropolitan University, queste particelle sono in grado di attraversare la barriera ematoencefalica, arrivando fino al cervello e innescando infiammazioni sistemiche. Un processo che può favorire malattie cardiovascolari, disturbi neurologici e problemi metabolici, anche se la ricerca è ancora in corso per chiarire i meccanismi precisi.
La soluzione non è complicata, ma richiede consapevolezza. Gli esperti consigliano di sostituire utensili in plastica con equivalenti in vetro o acciaio, evitare le bustine di tè industriali e preferire infusi sfusi. Anche il modo in cui si lavano e si utilizzano gli strumenti incide: temperature elevate, graffi e usura aumentano il rilascio di plastica. Alcuni nutrizionisti suggeriscono di tornare a pratiche più semplici, come bere da bicchieri di vetro o usare cannucce biodegradabili.
Le normative europee, nel frattempo, restano parziali. I test sulla migrazione delle microplastiche non sono ancora obbligatori per tutti i prodotti, e l’industria alimentare continua a usare plastica per confezionare e trasportare. Finché questo non cambierà, l’esposizione alle microplastiche resterà un problema quotidiano, spesso sottovalutato, ma tutt’altro che trascurabile.