Negli ultimi anni, il pastrami è passato da specialità etnica poco nota a protagonista indiscusso di panini gourmet e piatti social-ready. Lo si trova nei menù di bistrot, nei food truck e persino sugli scaffali dei supermercati, spesso accostato a immagini di artigianalità e tradizione. Eppure, dietro la sua crosta speziata e l’aroma affumicato, si nasconde una lavorazione complessa, carica di implicazioni poco note, che riguardano la salute umana, l’ambiente e la filiera produttiva.
Da metodo di conservazione a icona gastronomica
Il pastrami ha origini ebraico-romene e nasce come tecnica di conservazione in assenza di refrigerazione. Si parte da tagli come il petto di manzo, che viene immerso in salamoie ricche di nitriti, spezie e zucchero per giorni. Poi, la carne viene coperta con una crosta speziata – coriandolo, pepe, aglio – affumicata lentamente con legni come il faggio e infine cotta a vapore per ore. Un processo lungo, articolato, che può durare settimane.
Questo lungo ciclo produttivo, oggi industrializzato su larga scala, non esclude però criticità: la presenza di nitriti – sostanze chimiche usate per conservare e colorare la carne – e l’elevata quantità di sodio e grassi saturi pongono interrogativi importanti su ciò che si consuma con disinvoltura.

Nel frattempo, si sono moltiplicate le varianti: dal pastrami di tacchino o agnello, fino alle versioni vegetali a base di seitan, funghi o proteine isolate, nate per rispondere a una crescente domanda di alternative sostenibili e cruelty-free. Le versioni plant-based cercano di replicare consistenza e gusto, offrendo una strada diversa per chi vuole ridurre il consumo di carne, ma non rinunciare alla struttura affumicata tipica del pastrami classico.
Rischi per la salute e peso ambientale
Dal punto di vista nutrizionale, 100 grammi di pastrami apportano circa 25 grammi di proteine, ferro, zinco e vitamine B, ma anche una media di 1200 mg di sodio e una quota rilevante di grassi saturi. A pesare sono soprattutto i metodi di lavorazione industriale, che prevedono l’uso sistematico di additivi conservanti come nitriti e nitrati.
Secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, le carni lavorate – pastrami incluso – sono probabili cancerogeni per l’uomo (gruppo 2A). Le ricerche epidemiologiche suggeriscono un legame tra consumo regolare e tumori al colon-retto, legame attribuito in parte alla formazione di composti nocivi durante affumicatura e conservazione.
Oltre al rischio per la salute, c’è il capitolo ambientale. La carne utilizzata per produrre pastrami proviene spesso da allevamenti intensivi, che comportano un forte impatto in termini di emissioni, consumo d’acqua e uso di suolo. Il tutto, amplificato dal ciclo di produzione elaborato e dall’affumicatura.
Nel marketing, però, il pastrami viene proposto come esperienza premium, fotografato su pane rustico, servito con salse artigianali, promosso come ponte tra tradizione e innovazione. Ma questa narrazione tende a nascondere gli aspetti meno glamour, contribuendo a rendere il prodotto desiderabile senza stimolare una riflessione critica.
La domanda resta: quanto è sostenibile il pastrami? Non solo per l’ambiente, ma anche per chi lo consuma con frequenza, convinto che si tratti solo di carne affumicata. La realtà è più complessa – e forse, vale la pena guardarla da vicino, prima del prossimo morso.