Un ragazzo di 14 anni è morto a Worcester, nel Massachusetts, dopo aver partecipato alla cosiddetta “One Chip Challenge”, una prova virale che prevede il consumo di una singola tortilla iper-piccante. Secondo quanto riferito dai medici, il decesso è stato causato da un arresto cardiopolmonare, innescato da una condizione cardiaca congenita e aggravato dagli effetti della capsaicina, il principio attivo che rende piccante il peperoncino. La notizia ha aperto un dibattito acceso su responsabilità, prevenzione e sulle forme di promozione che rendono questi prodotti appetibili proprio ai giovanissimi.
Capsaicina e sfide virali: quando la piccantezza diventa un pericolo
La patatina era prodotta dall’azienda statunitense Paqui, che la presentava come “la più piccante al mondo”. Il packaging a forma di bara e i toni provocatori della campagna pubblicitaria non hanno fermato la diffusione del prodotto, anzi: hanno alimentato la curiosità dei più giovani, pronti a filmarsi mentre affrontano dolore, lacrime, svenimenti.

L’ingrediente principale, la capsaicina, è noto per la sua azione urticante sul sistema nervoso e per gli effetti sul battito cardiaco e la pressione sanguigna. In soggetti sani può causare tachicardia, nausea, vomito, forti dolori addominali. In persone con patologie, può avere esiti drammatici. Nonostante sulla confezione siano presenti avvertenze chiare — “non adatto ai minori di 18 anni”, “non ingerire se si soffre di problemi cardiaci” — queste indicazioni non bastano, soprattutto se il prodotto diventa oggetto di una prova di coraggio virale.
La One Chip Challenge è diventata negli ultimi anni un contenuto di tendenza su TikTok e YouTube, con centinaia di migliaia di video caricati da ragazzi in cerca di visualizzazioni. La spettacolarizzazione del dolore e l’assenza di controllo da parte delle piattaforme rendono il problema sistemico, e non isolato al singolo episodio.
Pressioni commerciali e mancanza di controllo: il ruolo delle aziende
Dopo l’incidente, la Paqui ha ritirato volontariamente il prodotto dagli scaffali americani. La decisione è arrivata in ritardo rispetto alle denunce di genitori, medici e insegnanti che avevano segnalato già da tempo gli effetti nocivi della sfida. Alcuni stati avevano cominciato a vietarne la vendita ai minori, ma il richiamo globale è arrivato solo dopo la tragedia.
Intanto, l’Antitrust statunitense ha avviato verifiche su eventuali pratiche commerciali scorrette, valutando se la comunicazione del prodotto fosse effettivamente mirata — anche indirettamente — a un pubblico fragile e facilmente influenzabile. La confezione stessa, con grafiche accattivanti e toni da sfida estrema, sembra essere stata pensata più per provocare che per proteggere.
Il dibattito tocca anche le piattaforme social, accusate di non intervenire su contenuti potenzialmente pericolosi o su sfide che mettono a rischio la salute dei partecipanti. La mancanza di filtri, sistemi di verifica o messaggi di allerta nei video virali ha amplificato il problema, contribuendo a rendere la sfida virale una sorta di rito di passaggio tra i giovanissimi.
Dopo la morte del ragazzo, scuole e amministrazioni locali hanno lanciato campagne informative per scoraggiare il consumo di prodotti estremi e promuovere un uso consapevole dei social. Ma serve molto di più: servono norme, controlli e una nuova attenzione verso il linguaggio pubblicitario e la responsabilità aziendale. Perché non basta un disclaimer stampato sulla scatola, quando tutto il contesto invita a sfidarlo.