Dietro l’apparente perfezione di frutta e verdura sugli scaffali dei supermercati italiani si nasconde un sistema complesso e poco trasparente che penalizza pesantemente i produttori agricoli.
Un’inchiesta approfondita, recentemente pubblicata da Stefano Liberti su Internazionale, mette in luce le dinamiche inique che caratterizzano il rapporto tra la grande distribuzione organizzata (GDO) e il settore agricolo, evidenziando pratiche commerciali che rischiano di compromettere la sostenibilità economica delle aziende agricole italiane.
Il ricatto del “ristorno” e le condizioni imposte ai produttori agricoli
Al centro dell’inchiesta emerge la pratica del ristorno, una sorta di “tassa” che i produttori di frutta e verdura devono versare alle catene di supermercati, proporzionale al fatturato generato. Come spiega un responsabile operativo di una nota azienda ortofrutticola, si tratta di uno sconto in fattura che può arrivare anche al 14% del valore delle merci vendute: “Sconto in fattura del 10 per cento. È nero su bianco”. Questo meccanismo costituisce una vera e propria condizione obbligatoria per poter accedere agli scaffali, non un’eccezione ma una regola diffusa. Per molte aziende agricole, questa percentuale rappresenta la differenza tra la sopravvivenza e il fallimento.
Le conseguenze di questa forma di ricatto commerciale si sommano ad altre difficoltà: consegne a orari impossibili, continue verifiche di qualità e “percentuali di scarto decise arbitrariamente” da parte delle catene di distribuzione. Il risultato è un quadro fortemente sbilanciato, dove il valore generato dalla vendita di frutta e verdura viene drenato verso la GDO, mentre gli agricoltori si trovano schiacciati da costi in aumento e ricavi sempre più risicati. Secondo un report recente dell’Ismea, su ogni 100 euro spesi dai consumatori, soltanto 7 finiscono nelle tasche degli agricoltori come utile netto.
Un’altra distorsione grave riguarda il ruolo delle promozioni. Originariamente pensate per aiutare i produttori a smaltire eccedenze, oggi sono diventate strumenti di pressione commerciale imposti dalle catene di supermercati. Come sottolinea Liberti, “l’idea alla base delle promozioni si è rovesciata: da strumento di sostegno al produttore sono diventate una leva commerciale imposta dalla distribuzione”. I fornitori sono costretti ad accettare offerte e prezzi decisi unilateralmente, spesso a loro discapito. A ciò si aggiungono le specifiche qualitative rigidissime: ad esempio, alcune catene richiedono solo pesche da 65 a 72 millimetri di diametro, scartando anche frutti leggermente fuori misura ma perfettamente commestibili.

Questi prodotti “imperfetti” vengono così esclusi dal mercato retail, destinati spesso all’industria o addirittura allo spreco. Intanto, il consumatore finale ignora completamente i sacrifici e gli sprechi nascosti dietro l’apparente perfezione dell’ortofrutta. In questa filiera agroalimentare, dominata da rapporti di forza sbilanciati, le aziende agricole hanno margini di manovra ridotti al minimo. I listini possono variare fino a tre volte alla settimana, le trattative risultano “muscolari” e sono imposte anche le scelte sui materiali di confezionamento, spesso più costosi della media.
L’esempio delle pesche è emblematico: su un prezzo di vendita al consumatore di due euro, appena trenta centesimi arrivano all’agricoltore. Nel tentativo di contrastare queste pratiche sleali, l’Unione Europea ha adottato nel 2019 una direttiva che vieta alcuni comportamenti. L’Italia ha recepito la normativa con la legge 198 del 2021, introducendo ulteriori misure come il divieto delle aste elettroniche al doppio ribasso e la vendita sottocosto, oltre a conferire all’ICQRF (Ispettorato Centrale della tutela della Qualità e Repressione Frodi) il compito di vigilare sul rispetto delle regole.
Nonostante ciò, molte pratiche problematiche, come i ristorni o le promozioni obbligatorie, rimangono legali se formalizzate nei contratti, alimentando una “zona grigia” difficile da contrastare. Un operatore del settore commenta amaramente: “stiamo autocertificando la riduzione del nostro utile”. Questo scenario lascia intravedere un equilibrio normativo ancora fragile, che non riesce a proteggere adeguatamente i produttori agricoli.
Un elemento che contribuisce a mantenere in vita questo sistema è il silenzio degli operatori agricoli, che spesso chiedono anonimato per paura di ritorsioni. La denuncia pubblica di pratiche scorrette può significare l’esclusione dal mercato: “È finito fuori dal giro. Cancellato. Il nostro settore ha la memoria lunga e la pelle sottile”, racconta un intervistato. Questo isolamento lascia gli agricoltori soli a fronteggiare catene di distribuzione che, al contrario, registrano profitti miliardari. Secondo un’analisi dell’Area Studi Mediobanca, la sola Eurospin ha chiuso l’ultimo esercizio con utili per 1,56 miliardi, confermando la disparità economica tra i soggetti coinvolti nella filiera ortofrutticola italiana.