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ABBIAMO MANGIATO DA 28 POSTI A MILANO

A inizio luglio, durante una partita degli europei, ci siamo seduti in un locale in zona Ticinese e abbiamo iniziato un viaggio. Lo definiamo viaggio perché ogni piatto, chiudendo gli occhi, poteva riportare a luoghi vicini e lontani, i 28 Posti che danno il nome al ristorante. Il nostro Caronte (benchè nelle pietanza fossero paradisiache) è stato Chef Ambrosino: procidano di nascita, inizia a sporcarsi le mani fin da giovane al Melograno di Ischia con la chef Libera Iovine. Nel 2012 viene chiamato al Noma di Copenhagen ed è qui, con Redzepi, che inizia a creare la sua idea di cucina unendo la tradizione profondamente italiana all’approccio minimale nordico: poche materie, sguardo al futuro, studio della natura e nuove tecniche. Chef Ambrosino è anche l’ideatore di “Collettivo mediterraneo”, un progetto che si propone di raccontare e promuovere la multiculturalità, la biodiversità e le antiche tradizione che fanno parte della cultura dello Stivale.

Anche 28 posti è stato messo a dura prova in quest’ultimo anno e mezzo e chef Ambrosino ha deciso che non era possibile portare la sua idea di cucina direttamente nelle case delle persone, ha quindi optato per la creazione di un altro menu mantenendo il loro approccio e i loro ingredienti. Nasce cosi la gastronomia di quartiere con il menu delivery, in una città satura come Milano, un’idea di cucina non solo attenta all’estetica ma alla storia degli ingredienti, alle origini e alle tradizioni. Ma andiamo al dunque e scopriamo le tappe del viaggio.

Si comincia con piccoli assaggi: il macaron alle alici e il pane caldo di tumminia servito con burro alle cipolle bruciate (ebbene sì, non è tiramisù quello nella foto).

La seconda tappa sa di Mediterraneo: pomodoro in conserva di alghe cotto su legna, skordalia di mandorle, tartufo nero, brodo di pomodoro e agrumi e olio alla griglia. I movimenti dovuti alle migrazioni, agli insediamenti nel Mediterraneo hanno portato in questo piatto alcuni semi di particolari pomodori “tre canti”. Dalla colonia ligure, i Tabarchini si sono spostati a Tabarca per poi stabilirsi nell’isola di San pietro in Sardegna, dove ancora oggi si parla il dialetto ligure. Che strani viaggi questi pomodori!

Il piatto che però ha fatto esclamare “wow” è stata l’ostrica alla griglia con marsala di pomodoro e olio di lentisco, il tutto accompagnato da un aggressivo vino di pane fermentato che si fa apprezzare solo dopo qualche sorseggio.

Le trottole cotte in brodo di lische affumicate con battuto di molluschi, tuorlo d’uovo e olio di sommaco sono un grande esempio di attenzione verso la stagionalità e il recupero, leggermente al dente, vengono abbracciate completamente dal condimento.

La tappa che invece ci ha catapultati in sud est asiatico, pur rimanendo sui Navigli, è stato il pesce cotto nel ghee alle rose, curry verde, zucchine fermentate e succo di kimchi dei suoi fiori. Per un attimo il curry ci ha presi per mano e portati in giro per le strade di Siem Reap.

Ma il piatto più sorprendente – forse per i gusti, forse per la storia raccontata dallo chef mentre cominciavamo a condividere- è stato il bouquet di erbe aromatiche e incenso accompagnate da salsa greca alle mandorle e focaccine gatah ripiene di pasta di agnello fermentata e scarti di agnello. Un capolavoro che racchiude l’essenza di Grecia, Italia, Turchia, Tunisia.

Poco prima di assaggiare i dolci, ci viene servito un’ultima pietanza salata: spaghettini, acqua di orzo fermentata e miso di ceci neri. Siamo andati controcorrente e la pasta la mangiamo alla fine!

Arriva finalmente il dolce che si intitola “Giardino mediterraneo” con carruba, chiodi di garofano, marsala e sommacco. Lo chef ci racconta che il sommaco si usa fin dall’età imperiale addirittura per conciare le pelli data la ricchezza di tannino. Apparentemente croccante la cialda si rivela burro che si scioglie in bocca. Il viaggio termina qui, e noi non vediamo l’ora di tornare in autunno quando il menù cambierà di nuovo.

 

 

Giulia Ferraraccio

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