Ricette
di marco beltramelli 3 Settembre 2021

FENOMENOLOGIA DELLA CARBONARA

Pecorino, tuorlo d’uovo e guanciale, una combinazione d’elementi codificata da un manipolo di gastro-hipster con la fissa per i prodotti tradizionali. Il piatto simbolo della capitale come lo conosciamo oggi ha una storia molto recente, ma il suo passato racconta ben altro. L’ingrediente fondamentale per cucinare un’ottima Carbonara non lo troverete in nessun supermercato.


Il futuro intrappolato nel nodo scorsoio di un bucatino, o di uno spaghetto, chissà quali sono le vostre preferenze. I paradossi del destino, parlare di Carbonara, per quel che mi riguarda, equivale a parlare dei Queen, se trattassimo di musica, di Frida Kahlo, stessi scrivendo di pittura: non li capisco. Ma soprattutto, non riesco a comprendere perché la gente ne vada pazza.

Non sto asserendo che la Carbonara faccia schifo, sia chiaro, forse è colpa del mio insito snobismo, del mio voler andare (quasi) a tutti i costi contro le convenzioni comuni e per questo preferirle la Gricia, autentica underdog del grande quartetto dei primi romani. Proprio come i dipinti dell’artista messicana nelle foto profilo, come “Bohemian Rhapsody” nelle selezioni musicali da Spotify, il “so fare la Carbonara” è diventato un topos diffusissimo fra le bio di Tinder. Provate a spulciarne qualcuna se non ci credete. La Carbonara si è trasformata in una ricetta mainstream, la pasta per eccellenza cui è stata dedicata persino una giornata mondiale, il piatto che basta conoscere – ma sia chiaro alla perfezione – per donarsi un allure da chef. Trovate un* ragazz* che vi prepari il pesto con il mortaio. Forse allora potrete parlare di affinità elettive.

Fateci caso. Nel video di “Faccio un casino di Coez, il rapper romano, per inaugurare un appartamento ancora spoglio, cucina proprio una Carbonara. Una frivolezza che confermare le mie inossidabili teorie sull’efficacia di questa pasta come esca da rimorchio, oltre che la sua imposizione a piatto pop per eccellenza. Ma a essere sincero credo il video esprima bene anche la “mood” che si cela dietro questa mitica pietanza. La natura di “piatto che ti salva in corner” è insita nella storia stessa della preparazione, scandalizzarsi è inutile, porre limiti all’utilizzo di nuovi ingredienti e nuovi espedienti va ontologicamente contro la natura della ricetta. La Carbonara ha una storia molto simile a quella di un software informatico: la versione “alfa” presentava diversi bug culinari che sono stati risolti grazie alla sua diffusione, dopo lunghi decenni di “beta test” che prevedevano ancora l’utilizzo di panna, albume e cipolla.

A cosa è dovuto tutto questo successo? La colpa (o forse il merito) è dei gastro-hipster che ne hanno creato un culto, riducendo gli ingredienti a 3, quelli tipicamente romani, sino a romanizzarne anche le origini. E che siano sempre più ricercati: il tuorlo d’uovo da galline allevate a canapa, il pecorino invecchiato nella grotta più remota, il guanciale passato sottobanco direttamente dal pusher del mitico Giorgione. Scapoloni che hanno dato il via a una propria fenomenologia, una fenomenologia moderna, alimentata da internet che l’ha resa la ricetta più cliccata del globo, dissacrandola in qualsiasi maniera, ma (proprio come lo Yin e lo Yang) codificandone anche i parametri. Perché la Carbonara è una ricetta moderna, i suoi natali risalgono alla Seconda Guerra Mondiale, ma la sua versione attuale, quello che è a tutti gli effetti il piatto simbolo della capitale, in fondo non è altro che un caso di appropriazione culturale perfezionato col tempo.

C’è chi asserisce – più per assonanza che per fondate ragioni storiche ­– che sia nata dai carbonari abruzzesi come evoluzione del tipico abbinamento del cacio con le uova. Francesco Palma, storico gastronomico napoletano, ne “Il principe dei cuochi” del 1881 parla di una pietanza, i Maccheroni cacio e uova, in cui il tuorlo è versato sulla pasta con un procedimento simile a quello della Carbonara attuale.  A rendere la ricetta ancor più simile a quella odierna, vi era la sugna. Con ogni probabilità, l’abbinamento tra pasta, uova e formaggio era un accostamento già diffuso nell’Italia di 80 anni fa, declinato in ogni regione e da ogni famiglia con gli ingredienti (il formato di pasta, il latticino e i salumi) tipici della zona o, più banalmente, secondo quel che si aveva a disposizione.

Oggi l’ipotesi più accreditata assegna i natali della Carbonara a Renato Gualandi, giovane chef bolognese che nel 1942, incaricato di preparare il pranzo per l’incontro tra l’Ottava Armata inglese e la Quinta Armata americana, – per ovviare alla mancanza di provviste nella Riccione appena liberata – dovette letteralmente inventare un piatto capace di nobilitare gli unici ingredienti disponibili – quelli contenuti nelle famigerate razioni K dei plotoni americani – e da buon italiano lo fece con maestria e paraculaggine. Ma, soprattutto, lo fece con la pasta. La Carbonara fu un successo, e Gualandi intraprese la carriera come cuoco al seguito delle truppe statunitensi con le quali esportò la sua creazione a Roma.

Ad alimentare ancor di più questo mito un corto – delicatamente romanzato e interpretato magnificamente da Claudio Santamaria – della Barilla cui morale verte proprio sull’idea che, intorno ad un tavolo imbandito, ci si senta sempre a casa. È il leitmotiv su cui è basata la comunicazione storica dell’azienda. Ma impresa più ardua era far sentire realmente a casa gli Yankee, distanziati dalla vastità di un oceano dalle proprie famiglie, immersi in una guerra che non li riguardava. E abituati a tutt’altri sapori. Cosa contenevano quindi le famose razioni K, quali erano gli ingredienti previsti nella prima versione assoluta di questa ricetta? Uova liofilizzate, latte in polvere (che giustificherà il massiccio utilizzo della panna in futuro) e bacon. Gli stessi che troverete sulle etichette delle confezioni degli stucchevoli preparati che affollano gli scaffali dei supermercati inglesi e americani tra una “Parmesan Sauce” e un “Sugo all’Alfredo”. Certo le differenze sono ben evidenti, la pasta all’Alfredo è una ricetta che utilizza ingredienti che fingono di essere italiani per creare un pasticcio a stelle e strisce, mentre la Carbonara è un piatto italiano nato dall’utilizzo d’ingredienti stranieri. Ma entrambe condividono un destino comune: i loro nomi hanno origini dichiaratamente americane.

La prima testimonianza documentata della carbonara, apparsa nella recensione di un ristorante italiano nell’Illinois, è datata 1952. Nella nostra nazione questo termine iniziò a diffondersi solamente due anni più tardi, a partire dalle pagine di quella che già all’epoca era una delle più importanti riviste di settore, La cucina italiana, in una preparazione che (udite udite) prevedeva l’aglio. La Carbonara, a differenza del gran bollito misto, della focaccia di Recco o dei tortellini (ma anche della Gricia e dell’Amatriciana), non ha una ricetta secolare depositata presso qualche consorzio che ne tuteli ingredienti, tradizioni e procedure. Non ha una ricetta ufficiale, ma solamente una ricetta ufficiosa, sino a qualche anno fa, anche nello Stivale, la Carbonare era ancora un cantiere aperto. Forse per questo è il piatto che ha dato vita ai più eclatanti casi di campanilismo alimentare verso l’estero, perché più di ogni altro esprime il nostro buon senso culinario. E agli italiani non piace venga messo in discussione.

I più nerd adoreranno la carbonara scientifica del professor Bressanini, gli straight edge della cucina tradizionale asseriranno che, per preparare un piatto perfetto che mantenga il tuorlo d’uovo “bavoso”, non occorrono termometri, il trucco risiede della sensibilità dello chef. Valerio Braschi, vincitore della sesta edizione di Masterchef, nel suo ristorante capitolino presenta in menù una carbonara liquida cui sapori sono identici a quelli originali, ma ottenuti tramite un processo di distillazione. La Carbonara di mamma ha sempre previsto la panna, eppure è così buona. Del resto è il segreto con cui ha conquistato papà negli anni 80, avrà copiato la ricetta da uno di quei volumi da collezione firmati da Gualtiero Marchesi. Che dire poi del Parmigiano. Beh, è probabile che anche il Gualandi, trovandosi a Riccione, lo abbia utilizzato nella sua versione originale. Il pecorino romano scorza nera di cui vi beate tanto? Sicuramente è stato prodotto in Sardegna. E la Carbonara di mare vale?

Come non menzionare infine i temibili cubetti di pancetta, criptonite dei talebani del guanciale. In quante occasioni, implorando pietà al frigo vuoto, vi sarà capitato di svoltare la serata con due uova e una confezione di dadini Beretta prossima alla scadenza ? L’avete forse chiamata pasta con tuorli e pancetta? Per non parlare di quella volta che siete andati a trovare l’amico assunto da Pret a Manger a Londra e, in mancanza di alternative migliori, avete ingurgitato un piatto di fusilli bacon, eggs and Parmesan per ricordare lontanamente i sapori di casa. Nulla di paragonabile a quello che hanno provato i soldati statunitensi negli anni 40. La Carbonara è opera dell’incontro tra il genio culinario italiano e i gusti americani, ma è soprattutto figlia di un sentimento umano ben più atavico: la necessità. Cheap o gourmet, tradizionale o innovativa, continuate a cucinarla portandole rispetto. Ma ricordatevi sempre, il segreto per una buona carbonare non sono gli ingredienti, è lo spirito.

 

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